Per secoli, la produzione artistica è stata la migliore cartina tornasole per comprendere le ocietà che in un modo o nell’altro l’hanno prodotta, che hanno voluto esprimere tramite un
Pietro Quattriglia Venneri
dipinto, una scultura o l’edificazione di un monumento quali fossero le sue necessità, le sue
conquiste o aspettative e, senza dubbio alcuno, le sue fragilità.
L’Esigenza umanitaria di rappresentazione artistica
Dalle incisioni rupestri delle grotte di Lescaux o da quella splendida “cappella Sistina” della preistoria rappresentata dalla grotta dei Cervi di Porto Badisco, il genere umano ha sempre e costantemente sentito l’esigenza di imprimere i propri caratteri essenziali su tela, di scolpirli nel marmo o di disegnarli su carta. Queste opere venivano consegnate al giudizio dei posteri, non solo per la qualità tecnica della realizzazione, ma per esprimere la complessità valoriale dell’umanità che le aveva create.
Prima dello scoppio dei due grandi conflitti mondiali, per millenni, l’arte ha rappresentato un’umanità che si impegnava nella formazione di un destino comune, caratterizzato dalla progressiva uscita da uno stato quasi infantile per progredire verso le grandi conquiste della seconda rivoluzione industriale. Che fosse declinata alla maniera caravaggesca o impressionista, in una Crocifissione o in un soggetto mitologico, la figura umana è stata l’oggetto unico di questa indagine monumentale.
Intorno a essa non ruotavano solo speculazioni di carattere tecnico, ma soprattutto dissertazioni teoriche: la figura poteva essere la forma perfetta a cui tendere, inventata e resa ideale di bellezza e purezza, come in Raffaello, oppure diventare un idolo immortale con i modelli presi dal vero da Caravaggio, che elevavano donne e uomini di strada a miti imperituri.
Nonostante il mondo avesse già conosciuto innumerevoli bestialità e tragedie, i due conflitti mondiali dei primi anni del Novecento hanno rappresentato un punto di svolta che ha portato alla creazione della contemporaneità in cui viviamo oggi. L’orrore delle due guerre, e in particolar modo il loro rapido succedersi, hanno reso inattuale la rappresentazione classica, poiché non più sufficiente. Dopo il 1945, non interessava più una raffigurazione chiara e immediatamente comprensibile dell’albero, della frutta o del corpo umano: ciò che contava era il loro concetto.
L’arte come specchio della società e la ricerca di nuovi orizzonti
Ovviamente, questo processo di indagine approfondita, in un contesto sociale tremendamente lacerato e in cerca di nuovi orizzonti, ha portato gli artisti verso un’analisi più votata a scavare l’interiorità. Come sempre avviene quando si esplorano i recessi della mente e dei comportamenti, si finisce per aprire un vaso di Pandora. Tutto ciò che era stato celato da secoli di ricerca di bellezza, di equilibrio formale e tecnico, di esaltazione di un’umanità costruttiva, viene ribaltato tanto da non apparire più attuale né comprensibile.
Le ultime resistenze figurative, come nel caso di Egon Schiele, non appartengono più ai valori di esaltazione, ma sono una panoramica di corpi emaciati, di una fragilità tale da far pensare alla possibilità di una loro immediata dissoluzione, culminata definitivamente con l’intuizione del taglio da parte di Lucio Fontana. Il gesto di Fontana è l’estremo tentativo di superare questo mondo fragile, emerso a pezzi dalle proprie macerie, per cercare una dimensione ulteriore che vada oltre l’usuale piano pittorico, provando a trovare una nuova dimensione al riparo da tutto.
Nel secondo Novecento, si assiste a una compenetrazione quasi indissolubile tra filosofia, in particolare sociale, e produzione artistica. In questo contesto, diventa fondamentale la definizione di “società liquida” offerta da Zygmunt Bauman, dove la convinzione alla base della modernità è che “il cambiamento è l’unica cosa permanente e l’incertezza è l’unica certezza,” aprendo così a un panorama di insicurezza frammentata che diventa terreno fertile per l’emergere delle fragilità umane, le quali inevitabilmente arrivano a modificare il comportamento individuale e il suo inserimento nella società mondiale.
L’esponenziale aumento dell’uso di sostanze stupefacenti e l’impennata nell’utilizzo di sostanze dopanti, non solo per finalità sportive ma per migliorare le prestazioni in generale, sono solo alcuni dei marker di questa nuova malattia globale. Le estreme conseguenze includono una tendenza inevitabile al contrasto sociale, all’acredine, e un progressivo aumento delle tendenze all’autoeliminazione, fino al suicidio.
In questo mutato clima, anche l’opera d’arte perde la connotazione di elemento posto a un livello di sovratemporalità e trascendenza, come reso esplicito dalla provocazione del 1968 di Giovanni Anselmo con “Scultura che mangia”, caposaldo dell’Arte Povera, dove due blocchi di marmo tendono a schiacciare un cesto di insalata destinato a deperire. Il vecchio mondo basato sulle proporzioni e su una forma di bellezza oggettiva è del tutto morto. Si apre così la via per permettere ai nostri più reconditi mostri di esplodere in tutta la loro devastante potenza. In un certo senso, le esperienze praticate attraverso le strade dell’arte diventano strumenti di racconto (denuncia) e tentativi di esorcizzare questi demoni, come nel caso del filone degli Young British Artists.